1571: la battaglia di Lepanto

Cinque giorni dopo la presa di Famagosta, a Messina, dove aspettavano la flotta veneziana a quella pontificia, giungeva a capo delle galee della Murcia e della Catalogna, don Giovanni d'Austria seguito da Alessandro Farnese, da Francesco Maria della Rovere, dal marchese di Carrara, da Ottavio e Sigismondo Gonzaga, da don Francesco di Savoia e da parecchi valenti capitani, quali Ascanio della Cornia, Andrea Provana conte di Leini, Pirro Malvezzi, Gil d'Andrate, i Doria, i Grimaldi, gli Imperiali, gli Spinola e Don Alvaro di Bazan marchese di Santa Cruz.

Le forze che venivano a trovarsi sotto il comando di don Giovanni d'Austria erano le seguenti: 31 galee e 20 navi spagnole con 555 cannoni, 8.000 soldati e 1.700 marinai; 19 galee napoletane con 95 cannoni, 1900 soldati e 1100 marinai; 16 galee siciliane fra le quali la Capitana, la Sicilia, la Padrona, e la S. Giovanni, con 20 cannoni, 400 soldati e 240 marinai; 10 galee di Gianandrea Doria con 50 cannoni, 1000 soldati e 600 marinai; 2 di Niccolò Doria, 4 dei Nomellini, 4 dei Negroni, 2 dei De Mari, 2 dei Grimaldi, 2 degli Imperiali, una dei Santi, 3 galee di Genova, 3 del duca di Savoia, 3 dell'Ordine di Malta sotto il comando del Priore di Messina Pietro Giustiniani, 12 galee pontificie noleggiate presso Cosimo de' Medici montate da Cavalieri di Santo Stefano e soldati delle Marche e delle Romagne; infine 105 galee veneziane con 905 cannoni, 11.200 soldati e 7.000 marinai. In totale vi erano 209 galee, 1.805 cannoni, 28.000 soldati, 12.920 marinai e 43.500 rematori.

Di tutte queste forze la maggior parte era stata fornita dall'Italia (Stati indipendenti e Stati soggetti), la quale aveva dato 178 galee, 1.270 cannoni, 20.000 soldati, 11.220 marinai e 37.300, il resto, secondo le cifre su riferite, era della Spagna.

Il 16 settembre, dopo lunghe discussioni sulla via da prendere, questa grande flotta, lasciò le acque di Messina e, raccolti nuovi soldati sulle coste calabresi, il 27 dello stesso mese giunse a Corfù.

Da Corfù l'armata andò nel golfo di Gomenizza, che si apre nelle coste albanesi, e il 4 ottobre andò ad ancorarsi nel porto di Fiscardo, da dove poi ripartì il 6 ottobre, diretta al golfo di Lepanto dov'era la flotta turca comandata da Müezzinzade Ali Pasa, forte di 222 galee, 60 galeotte, 750 cannoni, 34.000 soldati, 13.000 marinai e 40.000 rematori.


Don Giovanni d'Austria riceve la benedizione dei cardinali
(affresco in Ain Karim, Israele, presso la chiesa francescana della Visitazione)

La mattina del 7 ottobre del 1571 la flotta alleata giunse in vista delle Curzolari, isolette poste presso l'imboccatura del golfo di Lepanto, e subito l'armata ottomana uscì e si schierò in ordine di battaglia di fronte al nemico.

Lo schieramento dell'armata alleata aveva una lunghezza di circa tre miglia, il centro era formato da una squadra di 61 galee, quasi al suo fianco quella Reale di Spagna guidata da don Giovanni d'Austria, la Capitana pontificia comandata da Marcantonio Colonna, la Capitana di Savoia al comando del Provana, la Capitana di Venezia con Sebastiano Veniero e la Capitana di Genova con Ettore Spinola ed Alessandro Farnese.


Don Giovanni d'Austria, Marcantonio Colonna e Sebastiano Veniero
Ammiragli delle flotte alleate spagnole e papali contro i Turchi

All'ala destra stava una squadra di 53 galee capitanata da Gianandrea Doria, alla sinistra altrettante navi veneziane sotto il comando di Agostino Barbarigo; di riserva erano 35 navi comandate dal marchese di Santa Cruz don Alvaro de Bazan; di avanguardia, a un miglio a mezzo circa dalla linea frontale, stavano sei galeazze al comando di Francesco Duodo.

Della flotta ottomana il centro era comandato dall'ammiraglio supremo Müezzinzade Ali Pasa, il centro destro da Mehemet Sciaurak, vicerè d'Egitto, il centro sinistro dal bey d'Algeri Uluç Ali Pascià. I Turchi, pur essendo forniti di minor numero di cannoni, si affidavano al maggior numero delle loro navi ed alla conoscenza del luogo.


La battaglia di Lepanto (dipinto di Pieter Brünniche)

La battaglia fu ingaggiata verso mezzogiorno. Le prime ad entrare in combattimento furono le sei galeazze di Francesco Duodo, le quali, vedendo la flotta ottomana avanzare a semicerchio, aprirono un fuoco violentissimo e ruppero l'ordine serrato dello schieramento nemico. Allora la battaglia infuriò contemporaneamente su tutti i punti della fronte e presto prese l'aspetto di una mischia apocalittica.

Al centro, l'ammiraglia turca si lanciò contro la Reale di Spagna, imitata da altre navi ottomane; in aiuto della capitana spagnola accorsero altre navi cristiane, fra cui quelle di Sebastiano Venica, il quale combatté valorosamente e contribuì moltissimo all'esito dello scontro. Questo durò a lungo, fin quando Müezzinzade Ali Pasa fu colpito gravemente da una palla di cannone e la sua nave presto venne fatta prigioniera.

Con accanimento non minore si combatté all'ala sinistra, dove in un primo tempo i cristiani furono quasi sopraffatti, ma i restanti non tardarono a risollevarsi; un impetuoso assalto dato alla nave di Mehemet Sciaurak cambiò la sorti della battaglia, e Mehemet Sciaurak cadde sotto i colpi di Giovanni Contarini, la sua nave fu colata a picco e la sua squadra completamente sbaragliata.


La battaglia di Lepanto (dipinto di Andries van Eertvelt)

Diversamente procedettero le cose all'ala destra. Gianandrea Doria aveva poca voglia di sferrare battaglia. A sua volta Uluç Ali Pascià cercava di evitare il combattimento perché voleva che le sue forze rimanessero intatte par difendere le coste del suo regno di Algeri che potevano essere assalite dagli Spagnoli.

L'uno e l'altro pertanto dopo una serie di abili evoluzioni presero il largo; ma una parte della squadra del Doria, formata di veneziani, pontifici, piemontesi e dall'Ordine di Malta, si staccò dal resto della flotta genovese ed assalì la navi nemiche.

Sopraffatta dal numero delle navi avversarie la flotta del Doria ebbe la peggio; ma in suo soccorso si mossero don Giovanni d'Austria e Marcantonio Colonna; lo stesso Gianandrea Doria, visti i suoi in pericolo, fu costretto a rivolgersi contro gli Algerini; allora Uluç Ali Pascià, temendo di essere accerchiato, abbandonò il combattimento e le galee che aveva catturate e con venticinque galee e venti galeotte se ne fuggì a Costantinopoli.


Uluç Ali Pascià

Il comportamento del Doria fu la sola ombra che offuscò la vittoria cristiana di Lepanto, la quale fu completa. 117 galee e circa 20 galeotte ottomane furono catturate; 57 colate a picco durante la battaglia, 50 altre si fracassarono contro gli scogli; 40.000 turchi tra soldati e marinai furono uccisi, 8.000 fatti prigionieri e circa 10.000 schiavi cristiani furono liberati. Dei capitani nemici, oltre Müezzinzade Ali Pasa e Mehemet Sciaurak, trovarono la morte parecchi pascià e il comandante dei Giannizzeri.

Ma la vittoria fu pagata a caro prezzo: 7.500 cristiani perirono, 15 galee andarono perdute; i feriti ammontarono a 7.784 e tra questi ci fu il Cervantes, il celebre autore del Don Chisciotte.

Finita la battaglia, la flotta vittoriosa si rifugiò nel porto di Petala; non essendo possibile tentare altre imprese per la stagione inoltrata e per le condizioni delle navi, il consiglio di guerra stabilì di far vela verso ponente e il 10 ottobre la flotta entrava nel porto di Santa Maura, poi si recò a Messina.

L'annuncio della sconfitta produsse a Costantinopoli grandissima costernazione e si dice che il sultano Selim II rimanesse tre giorni senza prender cibo; però il Gran Visir Mehmed Pascià Sokolovič non rimase scosso dalla disfatta ed al legato papale disse: «Lepanto ci ha solamente tagliato la barba; essa crescerà più folta di prima; Venezia con Cipro ha perso un braccio e questo non cresce più».

E in verità quell'astuto uomo di Stato non aveva torto. Difatti gli Ottomani, con la sconfitta di Lepanto, non subivano perdite territoriali; in quanto ai danni materiali subiti, questi, date le immense risorse dell'Impero, erano facilmente riparabili.

Ed infatti l'anno dopo, una nuova flotta turca di oltre 200 navi al comando di Uluç Ali Pascià veleggiava minacciosa sui mari d'Oriente. Due sole cose avevano perduto i Turchi, che non poterono più riacquistare: la fama di invincibilità che tanto aveva loro giovato e la fiducia nelle proprie forze.


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