1250: la permanenza in Terra Santa
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1251: l'arrivo di nuovi Crociati

Intanto i cavalieri e i baroni rimasi in Palestina con Re Luigi IX, spogliati di ogni loro avere e ridotti alla penuria di ogni cosa, avevano così alte pretese per i loro servigi, che il tesoro del Re non bastava a soddisfarli, per cui si ricorse all'espediente di assoldare genti in Grecia, in Cipro e nelle città cristiane della Siria, ma il Re non poté avere altro che avventurieri, poco adatti a sostenere le fatiche e i pericoli della grande impresa.

Tra i guerrieri che il desiderio di lontane avventure aveva condotto allora in Terra Santa, merita menzione Ademaro di Ebnath, un cavaliere che era partito dall'Alto Palatinato con i suoi compagni e cercava ovunque di dare prove di perizia e di audacia. Costui, aspettando l'occasione propizia per combattere contro i musulmani, per non stare nell'ozio dava la caccia ai leoni inseguendoli a cavallo nel deserto e uccidendoli con le frecce.

Giunse anche un altro nobile cavaliere che diceva di appartenere alla famiglia dei Toucy, il quale era stato reggente dell'Impero Latino di Costantinopoli durante l'assenza dell'Imperatore Baldovino II de Courtenay e si gloriava di appartenere alla famiglia dei Re di Francia. Egli ora, con altri nove cavalieri, aveva abbandonato quell'Impero per difendere le misere reliquie del regno di Gerusalemme.

Il Signore di Toucy raccontava delle sventure di Baldovino II e i deplorabili insuccessi che avevano costretto l'Imperatore cristiano ad allearsi con il capo dei Cumani. Secondo l'uso dei barbari, il Principe dei Cumani e l'Imperatore di Costantinopoli si erano fatto estrarre il sangue, che mischiato poi in una tazza, avevano reciprocamente bevuto in segno di alleanza e di fraternità.

I cavalieri che accompagnavano il Signore di Toucy avevano adottato questa barbara usanza. Di ciò i guerrieri francesi all'inizio ne ebbero ribrezzo ma poi mescolarono essi stessi il loro sangue a quello dei nuovi compagni e, temperandolo col vino, ne tracannavano sino ad ubriacarsi e, abbracciandosi, si chiamavano fratelli.

1251: l'invio di ambasciatori dal Gran Khan

I costumi e le usanze dei popoli orientali eccitavano vivamente l'attenzione dei Crociati. Quando i missionari mandati da Re Luigi in Tartaria ritornarono a San Giovanni d'Acri, i Francesi li assediarono per averne notizie e racconti di cose nuove.

Guillaume de Rubrouck, capo della missione, era partito d'Antiochia, e facendo due leghe al giorno, aveva camminato per un anno prima di giungere al luogo dove abitava il Gran Khan dei Tartari.

I missionari avevano attraversato deserti dove avevano trovato immense montagne di ossa umane, funesti monumenti delle vittorie d'un popolo barbaro.


i missionari al ritorno dalla Tartaria

Al loro ritorno raccontarono cose meravigliose riguardanti la corte del Principe dei Mongoli, i costumi e alle usanze dei paesi che avevano visto le conquiste e le leggi di Gengis Khan.

Tra i racconti straordinari e ornati di particolari favolosi, i Crociati furono molto lieti nel sapere che la religione del Cristo si stava diffondendo anche nei popoli più lontani e i missionari attestarono aver visto in una città dei Tartari più di ottocento cappelle dove si celebravano le lodi del vero Dio.

Luigi IX sperava che un giorno i Mongoli potessero divenire alleati dei cristiani contro gli infedeli e con questa speranza decise di spedire nuovi missionari nella Tartaria.

1251: gli ambasciatori del Vecchio della Montagna

Comunque i Crociati non avevano solo l'opportunità di meravigliarsi per quello che sentivano sulle regioni più lontane dell'Asia, ma avevano vicino un popolo che, ancor più dei Mongoli, doveva stimolare la loro curiosità.

Alcuni mesi dopo il suo arrivo a San Giovanni d'Acri, Luigi IX ricevette una delegazione del Vecchio della Montagna, il quale regnava in un territorio situato nel pendio occidentale del Libano, con circa trenta villaggi o borghi abitati dal popolo dei Nizariti, conosciuti anche come “Setta degli Assassini”.


Luigi IX riceve la delegazione del Vecchio della Montagna
(dipinto di Rouget Georges)

Gli ambasciatori del Principe degli Assassini, ammessi alla presenza del Re, gli chiesero se conosceva il loro signore. Rispose il Re: “Io ne ho udito parlare”.

Allora uno degli ambasciatori disse:
“Perché dunque non hai tu chiesto la sua amicizia, mandandogli qualche regalo, come hanno fatto l'Imperatore di Alemagna, il Re di Ungheria, il Sultano del Cairo e tanti altri principi?”

Il Re ascoltò pazientemente le parole degli ambasciatori e li rimandò ad un'altra udienza, alla quale furono chiamati anche i Grandi Maestri dei Templari e degli Ospitalieri, i due Ordini Militari che il pugnale degli Assassini non poteva toccare e che incuteva timore al Vecchio della Montagna, visto che era stato costretto a pagare loro un tributo.

Nella seconda udienza i due Grandi Maestri redarguirono fieramente gli ambasciatori, dicendo loro che, se il Signore della Montagna non avesse mandato regali al Re di Francia invece di chiederne, avrebbero presto punito la sua audacia.

Gli ambasciatori riferirono queste minacciose parole al loro signore e questi, intimorito dallo stesso timore che invece voleva incutere ad altri, li rispedì dal Re Luigi con più pacifici compiti e con alcuni regali tra i quali si potevano notare certi vasi, un gioco di scacchi e un elefante in cristallo di rocca; inoltre il signore della Montagna aveva aggiunto una camicia e un anello, simboli di alleanza.

Gli ambasciatori, presentando i doni, dissero al Re:
“questi ti faranno ricordare che tu e il nostro signore dovete mantenervi uniti, come le dita della mano e come la camicia al corpo”.

II Re accolse onorevolmente questa nuova ambasciata a cui dette da portare al Principe degli Assassini dei vasi d'oro e d'argento, stoffe di scarlatto e di seta e li fece accompagnare da un dotto frate esperto nella lingua araba.

Essendo questo frate rimasto qualche tempo alla Corte del Vecchio della Montagna, raccontò al suo ritorno, vari particolari curiosi. Il Principe degli Assassini apparteneva alla setta di Alì e professava un certo rispetto per il Vangelo; venerava San Pietro, che tuttavia secondo lui continuava a vivere e la cui anima era già stata nel corpo di Abele, poi in quello di Noè, poi in quello di Abramo.

Il frate ricordava soprattutto il terrore che il Vecchio della Montagna incuteva ai suoi sudditi. Intorno al suo palazzo c'era uno spaventoso silenzio e quando si mostrava al popolo era preceduto da un araldo che gridava:
“Chiunque tu sia, temi di comparire davanti a quello che tiene nella sua mano la vita e la morte dei Re”.

1252: il recupero dei rinnegati

Mentre le meraviglie di questi racconti occupavano l'ozio dei Crociati, tra il Sultano di Damasco e quello del Cairo era stata dichiarata la guerra. I guerrieri cristiani, impazienti di combattere, soffrivano per il riposo al quale erano costretti dalla mancanza di rinforzi, visto che contavano sotto le bandiere della Croce appena 700 cavalieri, coi quali sarebbe stata una follia fare qualche spedizione importante.

In queste vicissitudini della guerra, il Re si preoccupava continuamente della liberazione dei prigionieri che rimanevano ancora in mano ai musulmani. Ma la prigionia dei cristiani non era la sola cosa che affliggeva il suo cuore; quello che più gli era penoso da pensare era che molti dei suoi compagni d'arme avevano abbracciato l'Islamismo.


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